martedì 26 gennaio 2021

I Giusti tra le nazioni, il coraggio dei singoli.


Nel 1953 a Gerusalemme in Israele venne inaugurato lo Yad Vashem, l'Ente nazionale per la Memoria della Shoah, il cui compito è quello di preservare e tramandare la memoria di ciò che è stato l'Olocausto, di ricordare le vittime e le loro storie e di celebrare i gentili, i non ebrei, che aiutarono gli ebrei perseguitati durante la follia nazista.
Queste persone sono dette Giusti tra le nazioni.
I giusti, in ebraico tzaddikim, sono
persone non di religione ebraica che hanno rispetto per le leggi basilari che Dio ha consegnato agli uomini, tra le quali non uccidere e non commettere il male.
Secondo il Talmud babilonese ogni generazione nascono 36 uomini giusti che grazie al loro operato cambieranno il destino dell'umanità.
Citando il Talmud: 
«Ci sono almeno 36 uomini giusti in ogni generazione che manifestano di contenere la Presenza di Dio. È scritto, felici coloro che attendono il Suo arrivo!»
Solo nel 1963 la Corte Suprema di Israele istituì una commissione il cui compito era rintracciare queste persone e assegnare loro l'onoreficenza di Giusto tra le nazioni. La Commissione è composta da 35 membri tra cui ci sono volontari, storici, studiosi e nei primi anni contava anche dei sopravvissuti alla Shoah.
La Commissione, basandosi sulle testimonianze dei sopravvissuti e incrociando numerose documentazioni è riuscita negli anni a rintracciare migliaia di uomini e donne in tutto il mondo che hanno rischiato e sacrificato la loro libertà e la vita stessa per salvare gli ebrei dai campi di sterminio e dalla morte, senza chiedere nulla in cambio, solo perché era appunto giusto. 
Sono state valutate le storie di coloro che hanno aiutato gli ebrei a nascondersi, di chi ha prodotto documenti falsi per celare la loro identità e di chi li ha aiutati ad espatriare per fuggire ai rastrellamenti.
Secondo il sito dello Yad Vashem, aggiornato nal primo gennaio 2020, sono stati insignite del titolo di Giusto ben 27.712 persone.
Ai Giusti è dedicato un bellissimo giardino all'interno del complesso museale. All'inizio veniva piantato un albero per ogni Giusto, ora per mancanza di spazio i nomi vengono incisi su un muro di marmo all'interno del parco.
L'idea del giardino venne a Moshe Bejski (1921-2007) ebreo polacco sopravvissuto alle persecuzioni naziste che divenne poi magistrato in Israele.
Durante la prigionia Bejski sentì parlare di Oskar Schindler e della sua fabbrica di munizioni, dove lavoravano numerosi prigionieri del suo campo.
Bejski riuscì a farsi assegnare a un lavoro nella fabbrica e lì negli anni partecipò al piano di salvataggio ideato dall'imprenditore cecoslovacco, aiutando a falsificare i documenti che avrebbero permesso a lui e ad altri ebrei di fuggire dalla Polonia e salvarsi.
Molti anni dopo in Israele raccolse le testimonianze di chi come lui era stato salvato da Schindler, che grazie a questi resoconti nel 1993 venne riconosciuto come Giusto tra le nazioni.
Oskar Schindler è probabilmente tra i Giusti più famosi, anche grazie al bellissimo film di Stephen Spielberg "Schindler's list".
La pellicola ha reso celebre ai profani un'altra citazione talmudica, «Chi salva una vita salva il mondo intero».
Affermazione appropriata per descrivere il valore dell'operato dei Giusti tra le nazioni.
Ma scorrendo le incisioni poste in quel suggestivo giardino si possono trovare anche nomi e storie italiane.
734 di quei quasi 28.000 Giusti sono italiani, è possibile leggere i loro nomi in un documento reperibile sul sito ufficiale dell'Ente.
Alcune storie sono molto conosciute, pensiamo a Giorgio Perlasca, commerciante padovano che a Budapest salvò numerose famiglie ebree fingendo di essere un diplomatico spagnolo; Gino Bartali, il campione del ciclismo che trasportò documenti falsi nella sua bicicletta; e Carlo Angela, padre di Piero e nonno di Alberto (che non necessitano di presentazioni), che nascose antifascisti ed ebrei nella sua clinica.
Le loro storie sono state spesso raccontate da documentari e fiction.
In quella lista ci sono anche i nomi meno noti di persone di fede.
Se da una parte, come abbiamo già detto, c'è un Vaticano che mantiene col Reich un rapporto ambiguo, dall'altra abbiamo sacerdoti e suore che hanno messo in pratica il più puro degli insegnamenti cristiani: ama il prossimo tuo.
Don Eugenio Bussa, che ospitò nella casa della sua parrocchia in Val Brembana tanti bambini ebrei facendoli passare per orfani di famiglie cattoliche.
Ruffino Nicaccio, frate francescano di Assisi, e il vescovo Giuseppe Placido Nicolini che diedero protezione a numerosi ebrei all'interno dei conventi della città umbra e nelle case adiacenti e si prodigarono per reperire documenti falsi per i fuggiaschi, che vennero consegnati proprio da Gino Bartali.
Il cardinale fiorentino Elia Angelo Dalla Costa, già conosciuto per il suo antifascismo, fornì rifugio a perseguitati politici, fuggitivi ed ebrei. 
A Firenze il cardinale collaborò con una rete di 
volontari cristiani ed ebrei, guidati dal rabbino di Firenze Nathan Cassuto e dall'antifascista ebreo Raffaele Cantoni.
Questa rete che prendeva il nome di DELASEM (Delegazione per l'Assistenza degli Emigranti Ebrei) operò in Italia tra il 1939 e il 1947 e si occupava di garantire aiuto economico agli ebrei deportati e perseguitati.
Dalla Costa incaricò il parroco fiorentino Leto Casini di fondare un comitato che potesse aiutare l'opera del DELASEM fornendo alloggi, viveri e documenti falsi.
Questi ultimi furono inviati anche nei conventi di Assisi dove i già citati Nicolini e Nicaccio. 
Un valido alleato del cardinale fu anche in Suor Maria Agnese Tribbioli, madre superiora di un convento di Firenze che nascose nelle soffitte dell'edificio che dirigeva molte famiglie ebree, registrandole semplicemente come degli sfollati.
Si racconta che suor Maria fronteggiò i soldati tedeschi che volevano perquisire i sottotetti e non li fece passare usando il suo corpo come ostacolo,, in nome della pace che regnava in quel luogo sacro. Di fronte a tanta determinazione i soldati se ne andarono.
E come loro tanti altri.
Ci sono poi le storie di gente comune, alcuni non sono mai stati insigniti del titolo di Giusto nonostante il loro operato riconosciuto meritevole, di altri si sono perse le tracce e il loro nome non sarà mai inciso in quel giardino a Gerusalemme.
Sono vicini di casa, colleghi, amici, ma anche perfetti sconosciuti che di fronte all'ingiustizia si sono schierati a favore dei più deboli.
Un gesto coraggioso e rischioso.
Eppure spontaneo e mai messo in discussione fino alla fine del conflitto.
Diceva Bartali:
«Il bene si fa, ma non si dice. E certe medaglie si appendono all'anima, non alla giacca.»
E infatti molte di queste persone finita la guerra sono tornati alla loro vita senza forse nemmeno rendersi della grandiosità del gesto che avevo compiuto. 
Perché era appunto spontaneo, umano. Semplicemente giusto.



«Though nothing, 
nothing will keep us together.
We can beat them,
forever and ever.
Oh, we can be heroes 
just for one day.»

Heroes, David Bowie


lunedì 25 gennaio 2021

Chiesa e Terzo Reich, un rapporto tra luci e ombre.

La connivenza e il silenzio della chiesa cattolica durante il nazismo e di fronte all'orrore dell'olocausto sono un argomento molto dibattuto da storici e teologi.
Fermo restando che la responsabilità e le colpe di questo genocidio rimangono nelle mani degli esecutori materiali non si può dimenticare che esiste una complicità morale nell'operato di coloro che, seppur potendo agire in modo concreto e autorevole, sono rimasti a guardare senza intervenire.
Secondo il Talmud colui che di fronte al male rimane impassibile è complice di questo male, e d'altra parte chi si prodiga per combatterlo «salva il mondo intero», come ricorda il celeberrimo film "Schindler's list".
Per questo il ruolo della chiesa cattolica e di Papa Pio XII (nato Eugenio Maria Giuseppe Giovanni Pacelli; 1876 – 1958)
è tristemente ambiguo.
Il pontificato di questo papa è costellato di luci e ombre.
Nel 1933 Pacelli, ancora segretario di Stato e cardinale, firmò a Roma il Reichskonkordat con la Germania, un concordato molto discusso con cui la Chiesa di fatto riconosceva la validità del regime nazista a patto che esso continuasse a permettere la libertà di culto e non interferisse col lavoro dei partiti e delle associazioni cattoliche.
Accordo che venne poi violato sistematicamente dal regime nazista.
Per questo motivo papa Pio XI (nato Ambrogio Damiano Achille Ratti; 1857 – 1939) scrisse nel 1937 l'enciclica Mit brennender Sorge (Con viva bruciante preoccupazione) in cui condannava il nazismo e la sua ideologia considerata un nuovo paganesimo:
«Non si può considerare come credente in Dio colui che usa il nome di Dio retoricamente, ma solo colui che unisce a questa venerata parola una vera e degna nozione di Dio. [...] un simile uomo non può pretendere di essere annoverato fra i veri credenti
Pio XI condanna senza mezzi termini anche il culto ariano della razza.
La reazione di Hitler fu eclatante.
Fece sequestrare ogni copia dell'enciclica e diede il via a una serie di processi farsa in cui i sacerdoti cattolici vennero accusato di gravi reati, anche a sfondo sessuale, con la conseguente condanna e deportazione nei campi di concentramento.
Ma se appunto papa Ratti si distaccò violentemente dall'ideologia nazista il suo segretario Pacelli continuò a operare in modo diplomatico e discreto nei confronti del regime, differenza che causò una rottura tra i due.
Nel 1939 muore Pio XI.
Secondo alcuni testimoni da lì a pochi giorni si sarebbe dovuto esprimere contro il regime fascista e il nazismo durante una riunione coi vescovi, e non solo, aveva già scritto con l'intento di pubblicarla un'enciclica contro l'antisemitismo, l'Humani generis unitas. 
Opere che non vedranno mai la luce, in quanto Pacelli diede ordine che ogni documento del pontefice a riguardo venisse distrutto.
Si troverà una copia dell'enciclica solo alla fine degli anni '60, e questa scoperta getta un'ulteriore ombra sull'operato di Pacelli.
Perché questa decisione di occultare le parole del defunto pontefice,
parole che avrebbero avuto un incredibile peso sulle coscienze dei cattolici dell'epoca?
Fu una scelta diplomatica dettata dal non voler creare ulteriori tensioni oppure da simpatie nei confronti del regime? 
Gli storici nel corso degli anni hanno dato risposte diverse e contrastanti. 
Nel 1939 proprio Pacelli viene nominato come successore di Pio XI con il nome di Pio XII. 
L'atteggiamento della Santa Sede sotto il nuovo pontefice riguardo alle deportazioni degli ebrei è ambiguo.
Spiccano alcuni spiragli di luce, testimonianze dei tentativi di aiutare la popolazione inerme, gesti riconosciuti e apprezzati anche dagli esponenti delle odierne comunità ebraiche, come quando i tedeschi imposero agli ebrei romani di consegnare 50 chili d'oro per evitare la deportazione, in quella situazione il Vaticano contribuì alla raccolta fornendone 20.
Durante il rastrellamento del ghetto di Roma Pio XII diede l'ordine di aprire le porte dei conventi e dei monasteri al fine di proteggere i fuggiaschi. Si conta che quasi 12.000 ebrei trovarono così la salvezza negli ultimi anni dell'occupazione tedesca.
Eppure il silenzio del Papa sulle deportazioni resta assordante, le poche iniziative diplomatiche di forma si perdono di fronte alla totale assenza di prese di posizione concrete ed effettive.
L'opinione comune è che Pio XII abbia preferito tacere per evitare che Hitler occupasse la Città del Vaticano, azione che inevitabilmente avrebbe posto fine al suo pontificato. 
L'ennesima scelta diplomatica da capo di stato e non da successore di Pietro.
Viene da chiedersi a cosa avrebbe portato in termini storici un'opposizione ferrea e decisa da parte della Santa Sede a questi orrori. 
Pur riconoscendo dei meriti a Pio XII rimangono ancora dubbi sulla natura dei rapporti tra la Chiesa e il regime nazista.
Due ombre in particolare si stagliano all'orizzonte.
Il rapporto Gerstein e la Rattenlinien.
Dicevamo che di fronte alla realtà dei campi di concentramento l'assenza da parte del Vaticano è imbarazzante e sospetta.
Il Vaticano era a conoscenza, come lo erano gli Alleati, dello sterminio perpetuato in quei luoghi, ne furono informati da diverse fonti.
Una di queste fu
Kurt Gerstein (1905 – 1945), ufficiale delle SS, membro dell'Istituto d'igiene e successivamente Capo dei Servizi Tecnici di Disinfestazione.
Come supervisore alle camere a gas assistette al vero utilizzo del gas Zyklon B.
Gerstein era un devoto cristiano, di confessione protestante, che già in passato era stato incarcerato per aver messo in discussione gli ordini dei superiori in quanto li riteneva in contrasto con la sua fede e i suoi valori.
E di fronte allo sterminio di massa di persone innocenti Gerstein nuovamente diede ascolto alla sua coscienza.
Stilò un resoconto, il rapporto Gerstein appunto, in cui raccontava in modo dettagliato ciò che aveva testimoniato nei campi di concentramento.
Cercò di portare il documento all'attenzione non solo degli Alleati, anche della Santa Sede, ma si trovò di fronte un muro di ostilità e disinteresse, in particolare nella persona del nunzio apostolico a Berlino Cesare Orsenigo, che rifiutò di incontrarlo.
Il nunzio non era nuovo a questo tipo di ostracismo a favore del regime, infatti mai una volta intervenne in favore della comunità ebraica tedesca, delle vessazioni che subivano i cattolici, e mai riferì al Vaticano la drammaticità della situazione.
Gerstein riuscì a far inviare il rapporto direttamente a Roma, ma non ricevette mai una risposta dal Vaticano. 
Il suo appello cadde nel vuoto.
Perché questa indifferenza?
Forse la risposta si trova nella seconda ombra che oscura l'operato del Vaticano.
Alla fine della Seconda Guerra Mondiale
gli ufficiali nazisti sfuggiti al processo di Norimberga crearono a Strasburgo
l'organizzazione O.D.E.S.S.A (Organisation der ehemaligen SS-Angehörigen ovvero 
Organizzazione degli ex-membri delle SS)
che aveva il compito non solo di 
trasferire all'estero i capitali accumulati dal Reich, in particolare in Spagna dove vigeva la dittatura dell'amico Francisco Franco, ma anche di garantire la fuga dall'Europa ai suoi membri.
 Da qui la creazione della
Rattenlinien (la via del ratto o rat line per i servizi segreti alleati) per permettere la fuga in Sudamerica di numerosi criminali di guerra nazisti.
La Rattenlinien fu uno dei progetti purtroppo più riusciti dell'organizzazione, ed è nota anche
 come via dei monasteri, in quanto questi edifici di proprietà della chiesa cattolica furono il primo nascondiglio per molti criminali nazisti.
Luoghi sacri che prima avevano ospitato le vittime ora ne ospitano i carnefici.
Figure di spicco del partito nazista quali Josef Mengele, Adolf Eichmann ed Erik Priebke trovarono rifugio in Sudamerica grazie anche all'intervento di figure autorevoli della chiesa cattolica.
In particolare fu determinante l'intervento del vescovo austriaco 
Alois Hudal (1885-1963) da sempre simpatizzante del regime e fervente antisemita.
Secondo molti testimoni Hudal era amico di Pio XII.
Karl Bayer,
paracadutista dell'esercito tedesco che collaborò col vescovo, sostenne che il Papa aveva fornito il denaro per la creazione dei documenti falsi e per i trasporti oltreoceano.
Nel 1947 il giornale cattolico “Passauer Neue Presse” accusò pubblicamente Hudal di aver organizzato la fuga dei criminali di guerra, e il vescovo dal canto non negò mai il suo coinvolgimento nella fuga dei criminali di guerra,  anzi ha sempre sostenuto di aver agito su ordine diretto del Vaticano.
Nonostante la sua ammissione di colpa nessuno intervenne; Hudal non rinnegò mai il suo ruolo, anzi, continuò a dichiarare di aver operato nel giusto. Venne invitato a dimettersi solo nel '52, e si ritirò a vita privata a Grottaferrata.
La motivazione di Hudal, così come quella 
della Santa Sede, di fare fuggire questi criminali di guerra va ricercata
nella necessità del Vaticano (e degli Stati Uniti d'America, spesso partner in crime di queste operazioni) di arginare l'avanzata del comunismo ateo.
Della serie, il nemico del mio nemico è mio amico.
Tra i nomi dei prelati coinvolti in queste operazioni spiccano quelli di Giuseppe Siri, vescovo di Genova, e di monsignor Giovanni Montini, colui che diventerà papa Pio VI. 
Una seconda rotta, detta di San Girolamo, si occupava invece di far fuggire nel Nuovo Mondo gli ustascia croati coinvolti nei crimini nazisti nella ex Jugoslavia.
Il Vaticano dunque forniva dei documenti provvisori col timbro ufficiale della Pontificia commissione di assistenza, a cui seguivano passaporti e lasciapassare rilasciati dalla Croce Rossa Internazionale.
Proprio lo studio dei documenti rinvenuti negli archivi post bellico della Croce Rossa ha tolto ogni dubbio sul coinvolgimento della Chiesa nella Rattenlinien.
Dalla Germania i criminali nazisti giungevano a Genova passando attraverso Madrid o Salisburgo, e dal capoluogo ligure potevano imbarcarsi per il Sudamerica.
Un ruolo importante lo giocò anche la collaborazione del presidente argentino Juan Domingo Perón (985 – 1974), che incentivò i nazisti a trasferirsi nel suo paese, dove avrebbero trovato un nascondiglio sicuro. Ovviamente pagando profumatamente la permanenza, dettaglio che non fu un problema.
I già citati Eichmann e Priebke vennero infatti arrestati solo dopo molti anni di vita tranquilla nel paese sudamericano.
Il quadro che si palesa davanti a noi non è edificante, anzi, mostra un coinvolgimento della Chiesa cattolica che va ben oltre il semplice non intervenire di fronte a un'ingiustizia.
Ma se l'Istituzione è più volte scesa a compromessi nel suo rapporto con il Reich lo stesso non si può dire di donne e uomini di fede che hanno messo a repentaglio e spesso sacrificato la propria vita per salvare degli innocenti, in nome del vero credo cristiano.
Nei prossimi articoli vi racconterò le loro storie. 



(Nella foto, Mathieu Kassovitz in una scena del bellissimo film del 2002 "Amen", del regista Costa-Gavras, che racconta la storia del rapporto Gerstein)

domenica 24 gennaio 2021

L'importanza della memoria per costruire un'umanità migliore.


“Perché la memoria del male non riesce a cambiare l’umanità? A che serve la memoria?”

È una citazione di Primo Levi che richiama un termine che avevo studiato all’università. 
Zikkaron.
È una parola ebraica e significa "memoria", più nello specifico significa "fare memoria".
Nella cultura ebraica il passato, sia esso gioioso o doloroso, va sempre ricordato.
Il bene va ricordato affinché venga replicato, il male va ricordato affinché non venga perpetuato mai più. 
Per questo per molti sopravvissuti all’Olocausto fu importante raccontare ciò che era successo nei campi di sterminio nazisti, non solo per far conoscere la verità, ma anche perché non venisse replicato in futuro.
E così come gli ebrei altri deportati tra cui zingari, testimoni di Geova, omosessuali, dissidenti politici, hanno voluto raccontare la loro tragica storia.
Quindi, a cosa serve la memoria?
La memoria dovrebbe permetterci di essere migliori, di diventare migliori. 
Un’umanità migliore, come auspicava Levi.
Questa settimana ricorre la Giornata della Memoria.
Di fronte al racconto di tanto orrore mettiamoci  rispettosamente in ascolto, e ricordiamo, oggi, domani, sempre.
Perché purtroppo certi venti di odio e crudeltà stanno ricominciando a soffiare, e non possiamo permettere che si trasformino nuovamente nell’orribile tempesta che fu quello sterminio. 
Noi possiamo essere quell’umanità che migliora, che smetterà di odiare.

domenica 17 gennaio 2021

Musica D(')annata: Il violino del diavolo.


C'è una casa a Nizza, una villa bellissima appartenuta al conte di Cessole, su cui girano strane voci.
Anche se non ci abita più nessuno gli abitanti del paese lì vicino raccontano che in quella magione succedono cose bizzarre.
Al calare delle tenebre luci misteriose si accendono, sfavillano alle finestre, si odono voci indistinte, e c'è una musica, una sonata per violino che si diffonde tra gli alberi del giardino, accarezza i sentieri, giunge fino alle case del paese.
Il trillo del diavolo, qualcuno azzarda.
Non ne è solo un epiteto, è proprio il titolo di questa melodia.
Il trillo del diavolo è un'opera per violino scritta da Giuseppe Tartini, compositore del 1700, il quale racconta di aver trovato l'ispirazione per quel brano in un sogno in cui il Diavolo si presentava al suo cospetto per comprare la sua anima.
Tartini aveva chiesto a Messere Satana se sapesse suonare il violino, ed egli aveva afferrato lo strumento e aveva eseguito con maestria una sonata bellissima quanto inquietante, la più bella che il Tartini avesse mai udito.

(Il sogno di Tartini, disegno di Louis-Léopold Boilly (1761-1845))

"Una notte del 1713 sognai di aver fatto un patto col diavolo. In cambio della mia anima, tutto sarebbe andato secondo i miei ordini. Il mio nuovo servitore anticipava tutti i miei desideri. Pensai di passargli il mio violino per vedere come se la cavava, e grande fu il mio stupore quando sentii una sonata così unica e bella, eseguita con una tale superiorità e intelligenza che non avevo mai udito nulla di simile. Non avevo mai neppure immaginato che potesse esistere una musica così incantevole. Provai un senso di piacere – di rapimento, di sorpresa – talmente intenso che mi sentii mancare il respiro: la forza di questa sensazione fece sì che mi risvegliassi all’improvviso.", scrisse Tartini in una lettera molti anni dopo.
Una volta sveglio il compositore aveva immediatamente trascritto la melodia sullo spartito.
In realtà il Diavolo altro non è che una metafora, rappresenta il violino, strumento tanto amato dal Tartini da fargli abbandonare la famiglia per poterlo suonare da professionista.
Il violino è il vero solo e unico tentatore per l'anima del Tartini.
Violino, strumento che la Chiesa stessa ha guardato con sospetto per secoli, uno strumento in odore di zolfo per il suo suono seducente.
La leggenda su quella casa a Nizza non smise mai di circolare tra gli abitanti della zona, anzi, venne rinvigorita dalla presenza negli anni successivi di un altro compositore e violinista in odore di dannazione.
Sto parlando di Niccolò Paganini.
In quella casa il genio genovese passò gli ultimi anni della sua vita e vi morì il 27 maggio 1840 a soli 58 anni.
Quel Paganini che in vita fu misterioso, magrissimo, pallido, gli occhi neri e il naso infossati in un viso ossuto, la bocca sottile, le occhiaie, i capelli, neri anch'essi, sempre scarmigliati e lunghi.
Un uomo dall'aspetto macabro ma affascinante a cui le donne infatti non sapevano resistere.
E nemmeno gli uomini, intesi come ammiratori della sua musica, dei suoi virtuosismi, e invidiosi del suo successo col pubblico femminile.
Tante amanti, si vocifera avesse sedotto addirittura alcune sorelle Bonaparte.
Il nero era il suo colore, neri i vestiti, gli occhiali dietro cui nascondeva lo sguardo, neri i cavalli che trainavano la sua carrozza, nera anchessa.
Suonava un prezioso Stradivari le cui corde, così raccontano alcune dicerie, erano state fabbricate con le viscere di un'amante di Paganini suicidatasi perché voleva che l'artista portasse sempre con sé qualcosa di lei.
O forse era stato proprio Paganini ad ucciderla, in molti avevano udito negli anni strazianti urla di donna provenire dalla camera da letto del musicista.
Più probabilmente erano grida d'estasi, data la fama di donnaiolo delluomo.
O forse le melodie stridenti prodotte dal suo suonare.
Ad ogni modo Paganini finì in carcere, ma non per questo orrendo delitto.
Il motivo della sua carcerazione non fu l'omicidio ma la sua condotta non proprio onorevole.
Nel 1815 la famiglia di una sua giovane allieva accusò Paganini di averla messa incinta, pertanto il nostro dovette passare una settimana in prigione.
E in quella angusta cella il Diavolo in persona si sarebbe palesato davanti a Paganini offrendogli un accordo: gli avrebbe donato un talento fuori dal comune, una maestria incomparabile nel suonare il violino in cambio della sua anima, peraltro già molto tormentata.

E ovviamente, vuole la leggenda, Paganini aveva accettato.
D'altronde l'artista non aveva poi ripreso e eseguito in diversi concerti una celebre sonata di quel violinista altrettanto diabolico, tale Giuseppe Tartini, Il trillo del diavolo, per celebrare questo patto infernale?
Le voci a riguardo si sprecavano, come si può intuire.
Paganini non le smentì mai, anzi, le alimentava con frasi e commenti accennati, si dice che pagasse alcune persone per diffondere notizie contraddittorie sul suo conto.
Un divo prima dell'invenzione del divismo, un esperto di marketing si direbbe oggi, consapevole che qualunque pubblicità, buona o cattiva, aiutava a vendere i biglietti dei suoi concerti, ovviamente sempre, come diremmo adesso, sold out.
Le voci sulla natura diabolica del talento di Paganini crearono anche ostilità nei suoi confronti, drappelli di gruppi cristiani cercarono di impedire i suoi concerti, ma il pubblico che lo adorava era più numeroso, e molto suggestionabile.
Più di uno spettatore giurò di aver visto una oscura figura accanto al violinista italiano, come se qualcuno muovesse le corde al posto suo.
Il noto poeta Heinrich Heine presenziò a un concerto di Paganini e scrisse successivamente nella sua opera Florentinische Nàchte: 
"Dietro a lui sagitava uno spettro, una beffarda natura di caprone e talvolta vedevo due lunghe mani pelose toccare le corde dello strumento suonato da Paganini."


Satana in persona dunque, sul palco a prendersi gli applausi assieme a Paganini.
Non dubito che al Diavolo sarebbe piaciuto molto avere questo onore.
Nella realtà Niccolò Paganini fu tutt'altro che diabolico: lo dimostra la scarsa destrezza col gioco d'azzardo, perdeva irrimediabilmente ingenti somme di denaro, lì a quanto pare il Diavolo non lo aiutava come nella musica.
Si diceva fosse avaro, in verità era un generoso filantropo che sovvenzionava artisti indigenti e si prodigava a favore dei malati, e soprattutto provava un affetto smisurato per il suo unico figlio, Achille (1825-1895), avuto da una relazione con la cantante Antonia Bianchi, che si era dileguata pochi anni dopo la nascita del bambino per contrarre un matrimonio più vantaggioso. Paganini le offrì 2000 scudi affinché lei rinunciasse ad ogni pretesa sul bambino, e lei accettò di buon grado.
Achille e il violino, i grandi vero amori della sua esistenza.
Paganini amava a tal punto quel piccino da arrabbiarsi ferocemente e cacciare una delle governanti che accudivano suo figlio quando scoprì che lo aveva picchiato per punirlo. 
Paganini aveva avuto un padre violento, tiranno, che lo picchiava quando non eccelleva nelle arti musicali, che lo costringeva ad estenuanti lezioni di violino per ottenere la perfezione. Paganini infatti già a 7 anni, secondo i racconti, era in grado di replicare una melodia appena ascoltata.
Il padre lo costrinse a suonare per un pubblico fin da piccolo pur di ottenere cospicui guadagni, e se il piccolo Niccolò non eccelleva veniva picchiato ed affamato.
Quindi Paganini aveva davvero incontrato un diavolo, dopotutto.
E nonostante ciò aveva trasformato quel violino da tormento a poesia.
Niccolò non sarebbe mai stato un padre così orribile per Achille, si era ripromesso, lo avrebbe vezzeggiato e amato, rinunciando a importanti concerti per stare con lui.
Il figlio indubbiamente ricambiava tale affetto e dedizione, e gli fu accanto negli ultimi istanti della vita vissuti in semi indigenza e piena agonia. 
Paganini infatti era malato, lo era sempre stato, sin da piccolo.
La salute cagionevole di natura congenita, lo stress e la stanchezza causate dalle estenuanti prove a cui lo sottoponeva il padre facevano di Niccolò un bambino sempre ammalato di febbre, malattie polmonari, fino a un virulento attacco di morbillo, che lo portò al coma.
Aveva 6, forse 8 anni, le fonti non sono certe, quando accadde. 
Ciò che è sicuro è che lo credettero morto.
E gli organizzarono il funerale, lo avvolsero nel sudario, pronti a seppellirlo. 
Vivo.
Per fortuna un inconscio movimento della mano venne notato dai presenti, e Niccolò evitò una terribile fine.
Una malattia in particolare fu determinante per Paganini, la sindrome di Marfan.
Questa patologia colpisce i tessuti, ne altera la composizione e la presenza di collagene, e porta spesso con sé, come in questo caso, un difetto fisico detto aracnodattilia, che aveva regalato a Paganini dita lunghe e mobili, capaci di contorcersi sulle corde del violino, e quindi la capacità di eseguire melodie complicate e veloci. 
Difetto che Paganini trasformò in arte, nonostante i forti dolori articolari che curava con l'oppio.
La tosse lo tormentò per tutta la vita, a volte questi eccessi duravano per ore, lo spossavano a tal punto che non riusciva a esibirsi o a mangiare.
Contrasse la sifilide che lo indebolì tanto quanto la cura usata a quei tempi per combatterla, il mercurio.
Fu quest'ultimo a dare il colpo di grazia al suo aspetto fisico, a trasformare il suo volto in una maschera pallida e smunta che però rimaneva affascinante e seducente, come abbiamo già constatato.
Infine contrasse la laringite tubercolare che gli causò una necrosi dell'osso della mascella e dovettero estrargli tutti denti inferiori, a quel punto gli divenne impossibile parlare.
Fu forse per questo che gli venne negata l'estrema unzione sul letto di morte.
Spesso si legge che egli stesso la rifiutò, in realtà Paganini scrisse un biglietto che consegnò al figlio Achille:
"Scriverò i miei peccati su una lavagna, così il prete potrà cancellarli direttamente."
Achille portò questa missiva al parroco della chiesa lì vicino, Don Cafferelli, ma questi rifiutò di assistere il violinista nei suoi ultimi istanti.
Che parli, che racconti i suoi peccati, se vuole l'assoluzione.
Un gesto impietoso e orgoglioso.
Paganini avrebbe voluto parlare ma non poteva a causa della sua malattia, e a nulla valsero i tentativi di spiegazione da parte del figlio Achille, l'estrema unzione gli venne di nuovo rifiutata.
Questo rende ancora più vergognoso e perfido il comportamento del sacerdote.
E senza ricevere l'ultimo sacramento Niccolò Paganini si spense in quella villa a Nizza di proprietà del conte di Cessole, suo caro amico e tutore del figlio.
Anche dopo la morte la leggenda di Paganini continuò a vivere a causa della mancata sepoltura in terra consacrata.
Il corpo di Paganini venne imbalsamato e conservato prima nella cantina della villa e poi in un lazzaretto.
La notte i curiosi vi si recavano per cercare di vedere la salma, molti raccontavano di figure mostruose che ballavano mentre risuonavano le note spettrali di un violino.
A questo punto la bara venne sepolta sotto a un oleificio per sottrarla a queste morbose attenzioni.
Le spoglie saranno sepolte a Parma solo nel 1876, dopo anni di richieste e suppliche da parte del figlio Achille.
Ma c'è chi sostiene che l'anima del violinista sia rimasta lì in quella villa di Nizza, dove ancora oggi pare che il diavolo si diletti a suonare un invisibile violino nelle notti senza luna.
Forse è così.
Io preferisco pensare che Paganini e Tartini in quei saloni affrescati si divertano a duettare in un celestiale trillo del diavolo. 


Per chi volesse godersi una biografia romanzata di Niccolò Paganini consiglio il film del 2013 da cui ho tratto le foto che hanno colorato questo articolo, Il Violinista del diavolo, di Bernard Rose, magistralmente interpretato da David Garrett, violinista di fama internazionale che presta il volto e le mani a Paganini, e Jared Harris nel ruolo ambiguo e luciferino di Urbani, l'impresario dell'artista.


martedì 12 gennaio 2021

Il mistero che avvolge tra luci e ombre la Sacra Sindone.



La Sacra Sindone è senza dubbio una delle reliquie più discusse della fede cattolica.
Secondo la tradizione viene identificata come il sudario in cui venne avvolto il corpo di Cristo una volta deposto dalla croce.
La Sindone si presenta come un lenzuolo di lino su cui s'è visibile l'immagine di un uomo che presenta sul corpo segni di tortura e crocifissione, compatibili con ciò che ha subìto Gesù durante la sua Passione.
La sua autenticità è stata ed è oggetto di un lungo dibattito che oscilla tra fede e scienza.
Percorriamo velocemente la storia della Sindone.
Il primo proprietario della Sindone fu Goffredo di Charny, cavaliere e autore di libri sulla cavalleria francese, che nel 1353 fece costruire una cappella a Lirey, sua dimora, dove espose il lenzuolo, dichiarando che si trattava dell'autentico sudario che avvolse Gesù Cristo nel Santo Sepolcro.
Goffredo non rivelò mai come fosse entrato in possesso di tale reliquia, e questo ha indubbiamente contributo ad aumentare la curiosità attorno ad essa. 
Inutile dire che ci furono reazioni eclatanti a questa notizia.
Goffredo muore in battaglia a Poitiers nel 1356, ma suo figlio Goffredo II negli anni continua a mostrare la Sindone ai pellegrini.
Per un periodo egli nascose la Sindone, proprio per non rischiare che gli venga confiscata,
ma nel 1389 organizza una nuova ostensione, che porterà Pietro d'Arcis, vescovo di Troyes, a scrivere un memoriale di protesta contro di lui, per poi spedirlo al pontefice Clemente VII ad Avignone.
Il periodo storico è dei più complessi.
Siamo in un momento di spaccatura all'interno della cristianità, quel grande scisma che divise la Chiesa occidentale a causa dello scontro fra papi e antipapi che si contendevano il soglio pontificio.
Questo periodo vede la presenza di due Papi, uno a Roma e uno ad Avignone.
Proprio al Papa "francese" Clemente VII viene chiesto di pronunciarsi sull'autenticità di questa reliquia. Possiamo quindi dire che il dubbio sulla sua natura è antico quanto la sua comparsa in Europa.
Il vescovo d'Arcis e il suo predecessore da anni indagavano sulla reliquia e osteggiavano la sua ostensione, nel memoriale d'Arcis riporta le conclusioni dei teologi da loro consultati, che si erano pronunciati contro Goffredo sostenendo che la Sindone doveva per forza essere un falso, dato che i Vangeli non nominano tale sudario in modo tale da darvi importanza, e soprattutto non viene descritto per essere riconoscibile. I motivi di questo ostracismo vanno ricercati nel mero interesse economico, la Sindone attirava pellegrini paganti a Lirey, facendo quindi diminuire i guadagni della cattedrale di Troyes.
Anche Goffredo manderà al pontefice un memoriale per difendersi.
L'antipapa Clemente VII nel 1390 emana quindi una bolla pontificia che vuole essere un compromesso, che recita:
"Al fine di far cessare ogni frode, (dichiaro) che la Sindone non era il vero sudario di Gesù Cristo ma una figura o una sua rappresentazione." E ancora, "si dica ad alta voce, per far cessare ogni frode, che la suddetta raffigurazione o rappresentazione non è il vero Sudario del Nostro Signore Gesù Cristo, ma una pittura o tavola fatta a imitazione del Sudario."
Pertanto Clemente 
da una parte autorizza l'esposizione della Sindone purché si dichiari che si tratta di un opera pittorica.
Molti anni dopo, intorno al 1415, Margherita di Charny, figlia di Goffredo II, si auto elesse proprietaria del lenzuolo, essendo l'unica erede del padre, e inizia a organizzare un giro di ostensioni della Sindone per i pellegrini in giro per l'Europa, ovviamente a pagamento. 
Verrà espulsa da diverse città, per via del suo rifiuto di fornire i documenti che attestavano l'autenticità della reliquia. 
I Vescovi le chiedono di rinunciare alla Sindone, ma ella rifiuterà sempre, fino a che nel 1453 la vende ai duchi di Savoia, per sfregio ai vescovadi.
I Savoia conservano la Sindone a Chambéry, capitale del loro regno, e nel 1506 il Papa Giulio II dà loro l'autorizzazione per esporla al pubblico.
Si può dire quindi che le dichiarazioni di Clemente VII sono come decadute, e la Sindone viene accettata come autentica e diventa oggetto di pellegrinaggio e venerazione.
Nel dicembre 1532 avviene il famoso incendio che distrusse la cappella in cui la Sindone è custodita. Il lenzuolo viene tratto in salvo e rattoppato dalle suore clarisse di Chambéry.
Nel 1562 i Savoia trasferiscono la capitale del Regno da Chambéry a Torino, e qui verrà portata anche la Sindone, in occasione del pellegrinaggio dell'arcivescovo di Milano, Carlo Borromeo, nella città piemontese. 
La Sindone da allora rimarrà quasi sempre a Torino, fatta eccezione per alcuni spostamenti dovuti alla necessità di preservarla.
La curiosità sulla autenticità della Sindone, ormai accantonata da secoli, ritorna verso la fine del 1800, quando Secondo Pia, avvocato appassionato di fotografia, ottiene dal re Umberto I di Savoia il permesso di poter fotografare la Sindone. Le foto sono abbastanza note, e sorprendenti: "l'immagine della Sindone sul negativo fotografico appare 'al positivo', vale a dire che l'immagine stessa è in realtà un negativo.", scrive Secondo Pia.
Queste foto fanno riaffiorare l'interesse sulla Sindone, dando vita a una serie di studi e analisi.
Nel 1931 la Sindone viene nuovamante fotografata da Giuseppe Enrie, le sue foto confermano ciò che aveva mostrato Secondo Pia.
Nel 1959 viene fondato il Centro Internazionale di Sindonologia con lo scopo di promuovere studi e ricerche sulla Sindone di Torino.
Nel 1983 muore l'ultimo re di Italia Umberto II di Savoia, il quale lascia la Sindone in eredità al Papa. Eredità che spesso sarà contestata dallo Stato Italiano.
Da allora la Sindone viene periodicamente esposta affinché possa essere venerata dai pellegrini.
L'ultima ostensione si è svolta nell'aprile 2020 in forma televisiva a causa delle restrizioni per il Covid.
Da quasi un secolo la Chiesa, dopo le prese di posizione di molti pontefici, ha deciso di non esprimersi più riguardo l'autenticità della Sindone, ma ne autorizza il culto e la venerazione, e lascia che siano la fede personale e soprattutto la scienza a dare delle risposte. 
Negli anni '70 viene quindi fondato lo Shroud of Turin Research Project, un gruppo internazionale di ricercatori, fisici e chimici, il cui scopo è quello di esaminare la Sindone per verificare la sua autenticità.
Nel 1981 vengono pubblicati i primi risultati degli esami effettuati: il sudario non è stato dipinto, non ci sono tracce di pittura e tintura; si evidenzia che effettivamente un corpo martoriato è stato avvolto nel lenzuolo e ha lasciato la sua impronta e diverse macchie di sangue.
Nel 1982 viene autorizzato uno studio con la tecnica radiometrica del carbonio 14 che coinvolgerà ben tre laboratori, quelli di Oxford, Tucson e Zurigo.
Ad ogni laboratorio venne consegnata una striscia di stoffa di circa 10 mm x 70 mm, prelevati dallo stesso punto della Sindone.
Vennero anche prelevati campioni di controllo da altri reperti quali un sudario di sepoltura nubiana, un lembo di un bendaggio di una mummia e uno del mantello di San Luigi d'Angiò. Il tutto venne consegnato ai laboratori in cilindri metallici numerati sui quali non vi era alcuna indicazione sul loro contenuto.
Gli esami incrociati sui tessuti porteranno alla conclusione che la Sindone si tratta di un falso storico.
I risultati saranno pubblicati in un articolo apparso sulla rivista scientifica Nature di quell'anno, che recita: 
"These results therefore provide conclusive evidence that the linen on the Shroud of Turin is mediaeval.", ovvero,
"Questi risultati perciò forniscono la prova definitiva che il lino della Sindone di Torino è medioevale."
La prova del carbonio 14 ha stabilito infatti che il sudario è databile tra il 1260 e il 1390, intervallo di tempo che coinciderebbe con il ritrovamento e le ostensioni ad opera di quel Goffredo di Charny (1353) di cui abbiamo parlato all'inizio.
Pertanto secondo questo studio la Sindone si tratta di un artefatto creato in Europa in epoca medievale. Ricordiamo che Goffredo non rivelò mai dove avesse trovato la Sindone, e non esiste nessun documento o fonte che ci fa intuire dove essa possa essere stata conservata per così tanti secoli dopo la morte di Gesù; quindi lo studio implicitamente ipotizza che il lenzuolo sia stato creato ad hoc per essere esposto ai pellegrini, con annesso tornaconto economico.
Ma il mistero della Sindone non è affatto svelato.
Queste conclusioni non sono state accettate da tutti e hanno sollevato molte polemiche e critiche, c'è chi sostiene infatti che i risultati siano stati falsati a causa delle contaminazioni del tessuto avvenute nel corso dei secoli che farebbero pensare a un falso medievale quando invece il tessuto originale risalirebbe al primo secondo dopo Cristo.
Questo ha portato a nuovi studi sul Sacro Lino.
Un dato interessante è quello che è emerso negli anni dalle ricerche di diversi palinologi, ovvero scienziati dediti allo studio dei pollini.
Sì, perché sulla Sindone sono state ritrovate tracce di pollini originari del Medio Oriente, nello specifico appartenenti a piante usate per produrre gli oli e gli unguenti usati per i riti funerari in Asia Minore 2000 anno fa.
Questi studi, condotti per dimostrare l'autenticità del sudario, potrebbero fare vacillare l'ipotesi che la Sindone sia stata fabbricata in Europa tra il 1200 e il 1300.
Ma la presenza dei pollini, seppur ci può suggerire alcune soluzioni sulla natura e la storia del lenzuolo, non è in grado di dimostrare che la Sindone sia effettivamente il sudario di Cristo. 
Considerate le tracce ematiche rinvenute e l'impronta di un corpo umano sul tessuto si potrebbe semplicemente trattare del lenzuolo funerario di un uomo ebreo morto in quegli anni in Palestina e sepolto secondo i rituali dell'epoca.
Un uomo che però ha subìto evidenti atroci torture prima di essere crocifisso.
Una coincidenza? 
La storia ci viene in aiuto nel formulare una nuova ipotesi.
Si parla di un uomo morto durante l'occupazione romana, periodo storici in cui non era insolito che personaggio sovversivi venissero giustiziati in modo brutale.
Non possiamo però sapere se questo uomo che si è ribellato all'Impero fosse Gesù Cristo.
Le scienze storiche ci pongono un successivo quesito.
Che ne è stato della Sindone nei secoli precedenti alla sua esposizione in Europa?
Possibile che una reliquia di tale importanza non abbia lasciato traccia della sua presenza? 
A quanto pare è possibile dato che non ci sono fonti, documenti, nulla che ne attesti l'esistenza prima del 1353.
Sono state prodotte alcune ipotesi.
La più accreditata è che il lenzuolo sia stato ritrovato da qualche crociato durante le razzie in Terra Santa, portata in Europa e rivenduto come reliquia per una cospicua somma di denaro.
Un gesto comune per quegli anni, un tentativo di raccimolare del denaro da parte di quei soldati che non si erano arricchiti durante le Crociate.
Forse il lenzuolo è stato venduto proprio a Goffredo di Charny, che credette, o scelse di credere, che esso fosse il sudario di Cristo.
Esiste un'altra teoria, in cui la storia scivola nella leggenda, secondo cui la Sindone, come il sacro Graal, sia stato custodito gelosamente e venerato dai cavalieri Templari fino allo scioglimento dell'ordine. 
Sono tutte comunque ipotesi senza fondamento storico.
Se per un periodo l'interesse verso la Sindone si è come sopito, giunge dalla Spagna un nuovo studio, che cerca di trovare un equilibrio tra il dato scientifico e la fede nella reliquia.
Nel febbraio 2020 sono stati divulgati i risultati di un'analisi condotta dal dottor Bernardo Hontanilla Calatayud, specialista in chirurgia plastica all’Università di Navarra in Spagna, che sulla rivista Scientia et Fides ha pubblicato un articolo in cui sostiene che essa sia effettivamente il sudario di Cristo, e non solo.
Lo studio in questione ha analizzato le tracce e le impronte sul lenzuolo, arrivando alla conclusione che esse non rispecchiano il canonico rigor mortis di un cadavere:
"Basandosi sullo sviluppo della rigidità cadaverica, si analizza la postura del corpo impressa sulla Sindone. La presenza di solchi facciali indica che la persona è viva. La Sindone di Torino mostra segni di morte e di vita di una persona che ha lasciato la sua immagine impressa in un momento in cui era viva", lo si può notare, dice lo studio, anche dalla posizione delle braccia e delle mani che ricordano una persona in procinto di alzarsi.
Dunque secondo il professor Hontanilla Calatayud la Sindone mostrerebbe non solo la figura di Gesù morto, ma anche nel momento della sua resurrezione.
Una teoria audace, che indubbiamente dona nuova linfa a un dibattito sempre acceso e mai concluso sulla natura della Sindone.


martedì 5 gennaio 2021

Un intero pantheon al femminile racchiuso nelle origini della Befana.


La Befana è un personaggio molto amato dalla tradizione popolare europea.
Fa simpatia questa vecchietta che a cavallo della sua scopa sfida il freddo per portare dolcetti ai bambini.
È una figura del folklore natalizio, il suo nome è una storpiatura del termine Epifania, infatti la Befana arriva proprio in questa data.
La figura di questa vecchina nasce dal mescolarsi di più tradizioni pagane, e strizza l'occhio alla storia dei re Magi.
Come i saggi venuti dall'oriente, di cui ho parlato in un precedente articolo, ella porta dei doni ai bambini.
Ma la sua natura ha radici antiche che affondano nelle religioni celtiche e germaniche, nelle figure femminili che rappresentano l'inverno.
Prima su tutte è certamente Perchta, la Splendente, la Madre invernale, rappresentata come una vecchia con la gobba, il naso aquilino e lunghi capelli bianchi, vestita di stracci, ma anche come una giovane fanciulla dalla pelle candida.
Il suo nome deriverebbe da Birtch, la bianca betulla. 
La sua immagine è parallela a quella di Frau Holle dalla mitologia norrena, conosciuta anche come Holda, la divinità che protegge le giovani donne. 
Figure femminili dal mondo nordico, di appartenenza culturale diversa eppure così simili nel loro essere.
Perchta, Holle, Holda, che volano sopra i campi di notte rendendoli fertili, un dono per i popoli.
Figure che percorrono i dodici giorni che dal solstizio d'inverno arrivano ai primi di gennaio, quelli che ora chiamiamo le dodici notti di Natale.
Sono dunque dee dell'abbondanza, che con la loro doppia immagine di giovane e vecchia che si avvicenda nel tempo ci ricordano che dopo il lungo inverno la natura rinasce più rigogliosa. Ci insegnano la pazienza e la gratitudine.
Esse sono le signore delle bestie dei boschi, poiché proteggono gli animali e vi parlano, infatti spesso vengono associate alla figura del Krampus dato che secondo le leggende di circondano di creature fatate.
Le dee tessono un telo di lino, un richiamo al mondo degli spiriti, e non solo.
Perchta come Holle viene definita la nonna dell'oscurità, in quanto era considerata colei che con dolcezza accompagnava nell'aldilà le anime dei bambini morti in tenera età.
Saltano all'occhio le similitudini con la nostra Befana, il volare su una scopa di notte, il portare doni, l'affetto per i più piccoli.
In questi giorni le case devono essere costantemente pulite e i pavimenti spazzati, da qui il richiamo alla scopa, che diventa col tempo un simbolo benaugurante. 
Non c'è solo il paganesimo nordico, la Befana si ispira anche a divinità del pantheon romano quali Strenua, la dea romana che benediva il gesto dello scambiarsi i doni, le strenne, durante i Saturnali, ma anche Diana, che proteggeva la natura e i boschi e le loro creature, e Abundia, dea dell'abbondanza e dei ricchi banchetti.
Tante donne, tante immagini del femminile giungono a noi racchiuse in una piccola donnina generosa a cavallo di una scopa.
La vera dolcezza e la reale bellezza dell'Epifania.




L'umanità intera sotto la stella di Betlemme.


La cristianità il 6 gennaio celebra l'Epifania.
In greco epifàino, (ἐπιφάνεια, epifàneia) significa apparizione, venuta, rivelazione e manifestazione divina.
In questo giorno le chiese orientali festeggiano la nascita Gesù, la chiesa cattolica, che già l'ha celebrata il 25 dicembre, ricorda invece l'arrivo dei Re magi che seguirono la stella cometa fino a Betlemme per conoscere Gesù Bambino, e donargli oro, incenso e mirra. 
Il vangelo di Matteo è l'unico testo che ci racconta di questo episodio.
L'identità e il ruolo di questi personaggi è stato a lungo oggetto di studio.
Innanzitutto bisogna chiarire che i re magi non erano dei reali.
Magi deriva dal persiano magush e dal greco magos, che era il termine usato per indicare i sacerdoti della fede zoroastriana.
Sono uomini saggi, di cultura, conoscitori dell'astrologia e dell'astronomia e, pare, capaci esorcisti.
L'errore trova le sue origini nell'iconografia cristiana che ha spesso ritratto i magi con indosso un copricapo dorato, che col tempo ha assunto la forma di una corona.
Sempre parlando di arte nel tardo medioevo si iniziò a raffigurarli in modo tale da essere la rappresentazione dell'umanità intera, per questo uno dei tre magi ha pelle scura, e sempre per lo stesso motivo i magi vengono mostrati come un giovane, un adulto e un vecchio, le tre età della vita. Nel corso dei secoli riceveranno molti nomi, a noi sono noti come Melchiorre, Baldassarre e Gaspare.
Non è nemmeno sicuro che siano stati in tre, è stato scelto questo numero data la terna di doni portati dai magi.
Quindi stiamo parlando di saggi venuti dall'oriente, sacerdoti di una fede lontana da quella ebraica, che decidono di seguire il tragitto di una stella, la cometa, alla ricerca di questo "re dei rei" appena nato di cui parlano molte profezie.
A questo punto bisogna chiarire il loro ruolo all'interno del racconto.
Molti biblisti concordano sul fatto che il racconto della venuta dei Magi abbia lo scopo di veicolare un messaggio più che di testimoniare una evento storico. 
Matteo vuole che sia chiaro il collegamento tra la nascita di Gesù e le profezie dell'Antico Testamento che parlavano della venuta di un messia nel popolo d'Israele, che sia evidente la continuità e affinità con la tradizione ebraica, tanto da inserire fin dal primo capitolo la genealogia di Gesù, il quale discenderebbe direttamente da Abramo.
Ma Matteo ha anche un altro intento.
Il ruolo di questi tre uomini è quello di rappresentare i gentili, ovvero i non ebrei.
Matteo utilizza la presenza dei magi a Betlemme per descrivere la situazione della comunità dei primi cristiani che cerca di capire come comportarsi con i nuovi fedeli di origine pagana.
L'evangelista compone il suo testo indicativamente intorno all'80 dC, e lo fa mentre si trova in Siria, ad Antiochia, città dove i giudei cristiani e i neo convertiti al cristianesimo convivevano.
Il contesto storico dunque è quello in cui il cristianesimo si sta diffondendo al di fuori dei confini della Palestina e l'accoglienza dei pagani non era un argomento di semplice soluzione. Potevano essi convertirsi al cristianesimo? Potevano farlo dato che non erano ebrei? Ricordiamo che i primi secoli il cristianesimo è stata una corrente religiosa della fede giudaica che ancora si stava ritagliando un suo spazio autonomo e originale.
La discussione sulla necessità di essere prima ebrei, quindi legati alla legge mosaica, per poter poi diventare cristiani sarà un punto focale e di svolta per il cristianesimo, questione che sarà risolta solo successivamente. 
Ma Matteo intanto usa la storia dei magi per dare due risposte: sì, i pagani possono convertirsi; sì, possono farlo perché il messaggio di Cristo è rivolto anche ai non ebrei, è per tutta l'umanità.
C'è una sottile critica nel racconto, che vuole fare riflettere.
I magi, sacerdoti pagani, rendono omaggio a Gesù Bambino, il quale trova fin da subito ostilità da parte della rappresentanza politica e religiosa giudaica, Erode in primis; la sua nascita verrà invece accolta dai più umili, dai pastori, e da questi uomini venuti da lontano che seppur così distanti dalle profezie e dagli insegnamenti giudaici riescono a vedere la vera natura di Gesù, tanto da accorrere a venerarlo.
A Betlemme viene dunque rappresentata tutta la comunità cristiana, ebrei e gentili, senza distinzioni o preferenze.
Matteo scrive il suo vangelo in greco con un'evidente impronta originaria semitica, usa infatti parole greche adattandole ai significati ebraici, la lingua diventa un ulteriore mezzo per veicolare il suo messaggio, ovvero che 
la fede in Cristo e il suo insegnamento non sono un dono ad appannaggio di pochi. Cristo non fa favoritismi, nasce e muore, e risorge, per l'umanità intera.