Se da una parte c'è un Vaticano che mantiene un rapporto ambiguo col Reich, dall'altra abbiamo sacerdoti e suore che hanno messo in pratica il più puro degli insegnamenti cristiani: ama il prossimo tuo.
Don Eugenio Bussa, che ospitò nella casa della sua parrocchia in Val Brembana tanti bambini ebrei facendoli passare per orfani di famiglie cattoliche.
Il cardinale fiorentino Elia Angelo Dalla Costa, già conosciuto per il suo antifascismo, fornì rifugio a perseguitati politici, fuggitivi ed ebrei.
A Firenze il cardinale collaborò con una rete di
volontari cristiani ed ebrei, guidati dal rabbino di Firenze Nathan Cassuto e dall'antifascista ebreo Raffaele Cantoni.
Questa rete che prendeva il nome di DELASEM (Delegazione per l'Assistenza degli Emigranti Ebrei) operò in Italia tra il 1939 e il 1947 e si occupava di garantire aiuto economico agli ebrei perseguitati, e non solo.
Dalla Costa incaricò il parroco fiorentino Leto Casini di fondare un comitato che potesse aiutare l'opera del DELASEM fornendo alloggi, viveri e documenti falsi.
Per gli ebrei queste carte di identità fasulle erano necessarie per la quotidiana sopravvivenza, come trovare un alloggio, piccoli impieghi, ottenere la carta annonaria che permetteva di acquistare generi alimentari. Presentarsi con i documenti autentici era un rischio perché si poteva essere identificati e arrestati, e di conseguenza deportati.
La fabbricazione di questi documenti non era semplice.
Occorreva procurasi i moduli originali dell'anagrafe, con l'aiuto di qualche impiegato antifascista, dovevano essere stampati clandestinamente, compilati e marcati con timbri che dovevano essere creati il più possibile identici all'originale.
Era indubbiamente un lavoro certosino, ma essendo suddiviso in più fasi gestite da persone diverse comportava un alto rischio di essere scoperti.
I documenti furono utilizzati a Firenze e non solo, furono inviati anche nei conventi di Assisi dove Della Costa poteva contare sull'aiuto di Ruffino Nicaccio, frate francescano, e del vescovo Giuseppe Placido Nicolini, che diedero protezione a numerosi ebrei all'interno dei conventi della città umbra e nelle case adiacenti.
Questa documentazione preziosa venne diffusa anche grazie a Gino Bartali.
Sì, esatto, il famoso ciclista toscano.
Bartali era un uomo molto devoto, e rifiutò sempre di aderire al fascismo.
Durante i suoi allenamenti Bartali trasportava all'interno della sua bicicletta ciò che avrebbe permesso l'espatrio a molte famiglie ebree.
Lo scrittore Alexander Ramati nel suo libro del 1978 "Assisi clandestina. Assisi e l’occupazione nazista secondo il racconto di padre Rufino Niccacci." racconta:
"Bartali raggiungeva Assisi portando fotografie, tornando indietro con carte d’identità un giorno o due dopo (...) come al solito, sfilò i manicotti dal manubrio e svitò il sellino per prendere le fotografie e le carte nascoste dentro il telaio della bicicletta”.
Bartali correva tra Firenze e Assisi conscio del fatto che se i soldati lo avessero fermato di certo non avrebbero perquisito una celebrità tanto ammirata.
La sua notorietà lo salverà, per esempio, quando nel 1944 venne convocato e interrogato dal fascista Mario Carità, a Villa Trieste.
C'è una lettera di Pio XII, che è stata intercettata, in cui egli ringrazia Bartali per un qualche aiuto non specificato.
Girano delle voci su Bartali, qualcuno sospetta un suo coinvolgimento con gli antifascisti, ma nulla di certo.
Quindi Carità vuole sapere perché il Santo Padre lo sta ringraziando.
Bartali mente, dice di aver inviato dei pacchi di viveri in Vaticano, per questo Pio XII gli ha scritto la sua gratitudine.
Carità gli crede, dopotutto Bartali è uno sportivo amato e da sempre ligio alle regole, e lo lascia andare.
Di questo si saprà solo molti anni dopo la fine della guerra, il ciclista infatti non raccontò mai a nessuno del suo coinvolgimento, saranno il figlio Andrea e la nipote Gioia a raccogliere, postume, diverse testimonianze a riguardo.
Un valido alleato del cardinale fu anche in Suor Maria Agnese Tribbioli, madre superiora di un convento di Firenze che nascose nelle soffitte dell'edificio che dirigeva molte famiglie ebree, registrandole semplicemente come degli sfollati.
Viene raccontato da alcuni suoi ospiti che suor Maria fronteggiò i soldati tedeschi che volevano perquisire i sottotetti e non li fece passare usando il suo corpo come ostacolo, in nome della pace che regnava in quel luogo sacro. Di fronte a tanta determinazione i soldati se ne andarono.
E come loro ci sono stati tanti altri uomini e donne che si sono prodigati per aiutare il loro prossimo perseguitato.
Molte di queste persone sono dette Giusti tra le nazioni.
I giusti, in ebraico tzaddikim, sono
persone non di religione ebraica che hanno rispetto per le leggi basilari che Dio ha consegnato agli uomini, tra le quali non uccidere e non commettere il male.
Secondo il Talmud babilonese ogni generazione nascono 36 uomini giusti che grazie al loro operato cambieranno il destino dell'umanità.
Citando il Talmud:
«Ci sono almeno 36 uomini giusti in ogni generazione che manifestano di contenere la Presenza di Dio. È scritto, felici coloro che attendono il Suo arrivo!»
Nel 1953 a Gerusalemme in Israele venne inaugurato lo Yad Vashem, l'Ente nazionale per la Memoria della Shoah, il cui compito è quello di preservare e tramandare la memoria di ciò che è stato l'Olocausto, di ricordare le vittime e le loro storie e di celebrare i gentili, i non ebrei, che aiutarono gli ebrei perseguitati durante la follia nazista.
Solo nel 1963 la Corte Suprema di Israele istituì una commissione il cui compito era rintracciare queste persone e assegnare loro l'onoreficenza di Giusto tra le nazioni. La Commissione è composta da 35 membri tra cui ci sono volontari, storici, studiosi e nei primi anni contava anche dei sopravvissuti alla Shoah.
La Commissione, basandosi sulle testimonianze dei sopravvissuti e incrociando numerose documentazioni è riuscita negli anni a rintracciare migliaia di uomini e donne in tutto il mondo che hanno rischiato e sacrificato la loro libertà e la vita stessa per salvare gli ebrei dai campi di sterminio e dalla morte, senza chiedere nulla in cambio, solo perché era appunto giusto.
Sono state valutate le storie di coloro che hanno aiutato gli ebrei a nascondersi, di chi ha prodotto documenti falsi per celare la loro identità e di chi li ha aiutati ad espatriare per fuggire ai rastrellamenti.
Secondo il sito dello Yad Vashem, aggiornato nal primo gennaio 2020, sono stati insignite del titolo di Giusto ben 27.712 persone.
Ai Giusti è dedicato un bellissimo giardino all'interno del complesso museale. All'inizio veniva piantato un albero per ogni Giusto, ora per mancanza di spazio i nomi vengono incisi su un muro di marmo all'interno del parco.
L'idea del giardino venne a Moshe Bejski ebreo polacco sopravvissuto alle persecuzioni naziste che divenne poi magistrato in Israele.
Durante la prigionia Bejski sentì parlare di Oskar Schindler e della sua fabbrica di munizioni, dove lavoravano numerosi prigionieri del suo campo.
Bejski riuscì a farsi assegnare a un lavoro nella fabbrica e lì negli anni partecipò al piano di salvataggio ideato dall'imprenditore cecoslovacco, aiutando a falsificare i documenti che avrebbero permesso a lui e ad altri ebrei di fuggire dalla Polonia e salvarsi.
Molti anni dopo in Israele raccolse le testimonianze di chi come lui era stato salvato da Schindler, che grazie a questi resoconti nel 1993 venne riconosciuto come Giusto tra le nazioni.
Oskar Schindler è probabilmente tra i Giusti più famosi, anche grazie al bellissimo film di Stephen Spielberg "Schindler's list".
La pellicola ha reso celebre ai profani un'altra citazione talmudica, «Chi salva una vita salva il mondo intero».
Affermazione appropriata per descrivere il valore dell'operato dei Giusti tra le nazioni.
Tra i nomi che spiccano c'è certamente quello di Armin Wegner, un soldato dell'esercito tedesco, di cui vale la pena raccontare la peculiare storia.
Armin Wegner si distinse durante la guerra per aver scritto una lettera a Hitler per protestare contro le persecuzioni degli ebrei sotto il nazismo, per la quale sarà incarcerato e torturato.
Ma non è solo per questo che verrà riconosciuto Giusto tra le nazioni.
Anni prima Wegner aveva assistito a quello che è considerato il primo genocidio organizzato della storia, e anche in quel caro non era rimasto a guardare.
Parliamo del genocidio degli armeni.
Medz Yeghern, il grande crimine, è il termine armeno usato per indicare il genocidio iniziato nell'aprile del 1915.
L'impero ottomano ordinò la cattura, la deportazione e l'eliminazione di tutta la popolazione armena. Più di un milione e mezzo di persone morirono durante le marce della morte.
Fame, sfinimento, torture, stupri ed esecuzioni.
Queste le cause della morte della popolazione armena.
Molte madri abbandonarono i figli sul ciglio della strada sperando che qualcuno li portasse via e li salvasse. Altre li soffocarono nel sonno per risparmiare loro atroci sofferenze, per poi suicidarsi.
Il genocidio degli armeni venne attuato dagli ottomani con la supervisione dell'esercito tedesco.
Secondo molti storici questo sterminio fu infatti una sorta di prova generale ispiratrice per ciò che avvenne successivamente con l'Olocausto e i lager nazisti.
Tra le file dell'esercito tedesco c'era anche Armin Wegner, che immortalerà questi momenti drammatici.
Dove altri giravano indifferenti lo sguardo, o peggio ancora partecipavano a stupri e torture, Wegner scattò fotografie.
Non riuscendo a ignorare la sofferenza che lo circondava Armin decise di immortalarla.
Cercò anche di adottare uno di quei bambini orfani, ma gli fu negata questa possibilità, e venne declassato di rango e inviato a occuparsi dei malati di colera.
Le sue foto, che ritraggono la condizione degli armeni durante le estenuanti marce, sono da sempre una prova incontrovertibile di ciò che è accaduto, contro ogni negazionismo.
Un titolo, quello giusto, che è doppiamente meritato.
Scorrendo le incisioni poste in quel suggestivo giardino si possono trovare anche nomi e storie italiane.
Herbert Kappler, il comandante delle SS a Roma durante l'occupazione nazista, scrisse ai suoi superiori: «Il comportamento della popolazione italiana è stato chiaramente di resistenza passiva, ma che in un gran numero di casi singoli si è mutata in prestazioni di aiuto attivo.»
734 di quei quasi 28.000 Giusti sono italiani, è possibile leggere i loro nomi in un documento reperibile sul sito ufficiale dell'Ente.
Alcune storie sono molto conosciute.
Quella di Gino Bartali, il campione del ciclismo di cui abbiamo parlato poc'anzi.
Il cardinale Elia della Costa, di cui abbiamo già raccontato la storia, sarà insignito del titolo di Giusto tra le nazioni per aver offerto rifugio a più di 400 persone nella Firenze occupata dai nazisti.
Un altro presbitero italiano riconosciuto come tra i Giusti tra le nazioni per aver aiutato gli ebrei perseguitati durante l'Olocausto fu don Dante Sala, parroco di un paesino vicino Mirandola.
Iniziò nel 1943, offrendo asilo a una famiglia di ebrei Jugoslavi, dopodiché entrò in contatto con Odoardo Focherini, amministratore delegato del quotidiano cattolico l'Avvenire d'Italia, e insieme aiutarono un centinaio di ebrei a scappare in Svizzera.
Focherini, di origine trentina ma nato a Carpi, era molto attivo nell'ambiente cattolico della sua città e dopo aver sentito le testimonianze di alcuni suoi concittadini riguardo alle deportazioni iniziò ad aiutare la comunità ebraica a fuggire in Spagna e Sudamerica.
Grazie alla mediazione del direttore dell'Avvenire Raimondo Manzini, Focherini entra in contatto con la Delegazione per l'Assistenza degli Emigranti Ebrei, il DELASEM, organizzazione che già conosciamo, e dopo l'occupazione tedesca comincia a fornire documenti a quegli ebrei che cercavano di lasciare l'Italia.
Qui inizia la sua collaborazione con don Dante, entrambi infatti accompagnavano in treno da Modena fino al confine svizzero gruppi di una decina di persone, in collaborazione con dei contrabbandieri, i quali ovviamente volevano essere pagati per ogni ebreo che facevano espatriare.
Sia don Dante che Focherini raccolsero soldi e finanziarono di tasca loro i contrabbandieri nel momento in cui una persona non era in grado di pagare.
Focherini tentò addirittura di organizzare una fuga dal campo di concentramento di Fossoli, vicino Carpi, ma venne arrestato dai fascisti.
Rifiutò di collaborare e di fornire informazioni e venne così deportato nel campo di concentramento di Herrsbruck, dove morirà nel 1944.
Anche Focherini riceverà il titolo di Giusto tra le nazioni, e non solo.
Nel 2007 il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano ha consegnato la Medaglia d'oro al Merito civile alla memoria di Odoardo Focherini. Inoltre nel 2012 papa Benedetto XVI lo ha riconosciuto come martire e nel 2013 Odoardo è stato beatificato.
Il suo culto è molto sentito a Carpi, la sua città, e in Trentino, regione dei suoi genitori.
Anche don Dante Sala venne arrestato ma venne rilasciato, dopo brutali interrogatori, per insufficienza di prove.
Prima della fine della guerra impedì che un centinaio di italiani venissero deportati in Germania facendoli assumere in un allevamento di cavalli.
Un altro nome molto noto è quello di Giorgio Perlasca, a cui la Rai ha dedicato una fiction biografica alcuni anni fa, con protagonista l'attore Luca Zingaretti.
Perlasca, commerciante padovano, si distinse perché a Budapest salvò numerose famiglie ebree fingendo di essere un diplomatico spagnolo.
Fascista della prima ora, iniziò ad allontanarsi dal partito non condividendo la promulgazione delle leggi razziali e l'alleanza con la Germania.
Da qui ma decisione di dedicarsi all'attività commerciale, e si trasferì all'estero.
Nel 1943 mentre si trovava a Budapest rifiutò di aderire alla repubblica sociale italiana, pertanto divenne ricercato dai tedeschi.
Nella capitale ungherese chiese ospitalità all'ambasciata spagnola.
Perlasca infatti aveva partecipato alla guerra civile in Spagna, pertanto l'ambasciata non poté rifiutarsi di aiutarlo, e ottenne una cittadinanza falsa e un passaporto spagnoli, a nome di «Jorge Perlasca».
Fu proprio usando questa identità fittizia che riuscì a salvare numerose famiglie ebree dalle deportazioni.
All'inizio lo fece con la collaborazione del console spagnolo, ma quando questo lasciò l'Ungheria Perlasca Perlasca si finse il suo sostituto.
Da quel momento Perlasca iniziò a nascondere migliaia di ebrei nell'ambasciata spagnola e in case sicure, redigendo falsi documenti di identità che dichiaravano che quelle persone erano cittadini spagnoli e occupandosi dell'organizzazione del loro mantenimento.
Con questo stratagemma Perlasca salvò quasi 5000 ebrei.
Un'altra storia riguarda il dottor Carlo Angela, psichiatria, padre di Piero e nonno di Alberto (che non necessitano di presentazioni).
In qualità di direttore sanitario della casa di cura per malattie mentali "Villa Turina Amione" Angela durante l'occupazione tedesca nascose numerosi antifascisti ed ebrei nella sua clinica, spacciandoli per pazienti.
Angela istruì i suoi ospiti su come fingere di essere malati, in modo da non destare sospetti nel caso di una perquisizione.
Don Arrigo Beccari, sacerdote di Modena che collaborò con il Delasem per nascondere bambini e ragazzi dalle deportazioni.
Nel 1942 iniziò ad accogliere giovani ebrei dell'est Europa a Villa Emma, edificio isolato nei pressi di Modena, e successivamente si occupò della loro collocazione presso alcune famiglie della zona, quando i controlli dei soldati tedeschi si fecero più serrati.
Venne arrestato nel 1944 ma non collaborò mai con i tedeschi.
La prima donna italiana insignita dell'onorificenza di Giusto tra le nazioni è stata Clelia Caligiuri.
Originaria di Sorrento, madre di tre figli, Clelia si trasferì in Veneto e rimase vedova durante la seconda guerra mondiale.
In seguito alla morte del marito decide di aiutare altre vedove di guerra fornendo loro aiuto psicologico e con la burocrazia. Nel 1943, Clelia si trasferì a Follina, sulle Alpi venete, a causa dei problemi di salute della figlia. È qui che fa la conoscenza di Sara Karliner, un' ebrea scappata dalla Jugoslavia costretta al confino a Follina a causa delle leggi razziali. Dopo l'8 settembre 1943 Clelia aiuta Sara a lasciare Follino e la nasconde a casa sua affinché non venga deportata.
Clelia si fece aiutare da don Giovanni Casagrande, parroco di Lutrano di Fontanelle che si prodigava nell'aiuto ai rifugiati.
Sara trovò rifugio nella parrocchia di don Giovanni fino alla fine della guerra.
Clelia contribuì portando a Sara viveri e donandole del denaro da usare in caso fosse dovuta fuggire all'improvviso.
Grazie a Clelia Sara sopravviverà alle persecuzioni e alla guerra e riuscirà a ricongiungersi con la sua famiglia.
Un'altra donna a ricevere il titolo di Giusto fu Ida Brunelli.
Ida era la bambinaia dei tre figli di una famiglia ebraica ungherese, i Tóth Galambos.
Dopo l'emanazione delle leggi razziali i genitori dei bambini morirono, il padre in guerra e la madre di infarto, e Ida si prese cura dei tre bambini.
Inizialmente li nascose a casa di sua madre e poi li portò in un istituto cattolico, l'Orfanotrofio Sant’Antonio dei Frati del Santo di Padova.
Ida visitava regolarmente i bambini e finita la guerra si mise in contatto con la brigata ebraica che stava rintracciando gli orfani delle famiglie ebree, e glieli affidò affinché venissero trasferiti in Palestina.
Una storia particolare è quella di Lorenzo Perrone, che ci viene raccontata dallo scrittore Primo Levi nel suo capoluogo Se questo è un uomo.
Perrone era un muratore italiano, insieme ad altri dipendenti della ditta Boetti venne trasferito ad Auschwitz per partecipare ai lavori dell'espansione del campo. Nel 1944 conobbe Primo Levi, che lo avvicinò avendolo sentito parlare in Piemontese, e i due corregionali diventarono amici. Levi gli raccontò delle terribili condizioni a cui erano costretti, e Perrone non rimase a guardare.
Da quel momento Perrone iniziò a donare a Levi parte della sua razione di cibo, lo rubò perfino dalle cucine, gli regalò una maglia da poter indossare sotto alla divisa, così da non soffrire troppo il freddo. Fece in modo di recapitare alla mamma e alla sorella di primo Levi una lettera da parte dello scrittore, e consegnò all'amico la loro risposta e un pacco di viveri.
Perrone a quel punto decise di aiutare altri prigionieri italiani rinchiusi nel campo.
Finita la guerra Perrone tornò in Italia, ma ciò che aveva visto ad Auschwitz era stato così devastante da portarlo all'alcolismo.
Primo Levi, che gli era rimasto amico una volta tornati a casa, cercò inutilmente di convincerlo a curarsi.
Perrone morì a causa di una tubercolosi che ebbe la meglio sui suo fisico debilitato dall'alcol.
C'è la storia di Andrea Schivo, guardia carceraria a San Vittore.
Schivo era assegnato alla sezione dei detenuti ebrei, e a loro la guardia porta di nascosto del cibo, piccole razioni che però sono vitali per i detenuti.
Purtroppo le SS, che gestivano la sezione, trovarono un ossicino di pollo in una cella di una famiglia di ebrei.
I prigionieri saranno torturati e riveleranno il coinvolgimento di Andrea Schivo, che sarà arrestato e deportato nel campo di Flossenbürg, dove morirà poco prima della fine della Guerra.
Un caso interessante è quello di Ferdinando Natoni.
Natoni era membro della milizia fascista, ed era caposcala di un condominio in via Arenula.
Nel suo edificio viveva una famiglia ebrea, i Limentani, con cui lui non aveva buoni rapporti a causa suo credo politico e di alcuni screzi tra condomini.
Durante il rastrellamento del ghetto di Roma avvenuto il 16 ottobre 1943 la famiglia Limentani cercò di fuggire, e le due figlie Mirella e Marina rimasero bloccate sul giroscale. Fu a quel punto che Natoni, vedendo arrivare i tedeschi, le spinse nel suo appartamento.
Quando i soldati perquisirono la casa Natoni dichiarò che le ragazze erano figlie sue.
I soldati all'inizio non credettero a Natoni, lo arrestarono per verificare la sua storia ma l'uomo si salvò grazie alla sua appartenenza alla milizia fascista. Tornò a casa la sera stessa, e le ragazze si ricongiunsero con la famiglia per scappare insieme.
Dopo la guerra ogni anno la famiglia Limentani ha portato dei doni alla famiglia di Natoni, in ricordo di quel gesto che ha salvato le loro vite.
Tante vicende, tanti nomi.
Ci sono poi le storie di gente comune, molti non sono mai stati identificati e forse il loro nome non sarà mai inciso in quel giardino a Gerusalemme.
Sono vicini di casa, colleghi, amici, ma anche perfetti sconosciuti che di fronte all'ingiustizia si sono schierati a favore dei più deboli.
Un gesto coraggioso e rischioso.
Eppure spontaneo e mai messo in discussione fino alla fine del conflitto.
Diceva il giusto Bartali:
«Il bene si fa, ma non si dice. E certe medaglie si appendono all'anima, non alla giacca.»
E infatti molte di queste persone finita la guerra sono tornati alla loro vita senza forse nemmeno rendersi della grandiosità del gesto che avevo compiuto.
Perché era appunto spontaneo, umano. Semplicemente giusto.
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